Marco Martinelli, Divulgatore Scientifico e PhD, student presso Scuola Superiore Sant’Anna.
L’immunoterapia ha completamente cambiato i paradigmi dell’oncologia, un vero e proprio faro di speranza per molti pazienti con tumori metastatici in stadio avanzato.
La rivista “Science” nel 2013 l’aveva nominata come “Rivoluzione dell’anno” ma le origini di questa terapia sono in realtà più antiche e possono essere fatte risalire al 1860, quando i medici tedeschi Wilhelm Busch e Friedrich Fehleisen osservarono indipendentemente la regressione di un tumore in pazienti affetti da erisipela, ossia un’infezione acuta del derma.
Nel 1890, il dottor William B. Coley, chirurgo osseo e oncologo presso il New York Hospital (ora parte del New York-Presbyterian/Weill Cornell Medical Center), fece osservazioni simili e iniziò a iniettare batteri vivi in pazienti con tumori maligni inoperabili.
Il suo trattamento, noto come “Le tossine di Coley”, ottenne una regressione completa in molti dei circa mille pazienti affetti da cancro da lui trattati. Nel 1928, il biologo americano Raymond Pearl, che lavorava al Johns Hopkins Hospital di Baltimora, riferì che l’incidenza del cancro al polmone era significativamente più bassa nei pazienti infetti da Mycobacterium tuberculosis.
Questa scoperta accese l’interesse nell’utilizzo di un vaccino batterico vivo attenuato, il Bacillus Calmette-Guérin (BCG), come trattamento contro il cancro. Nel 1976 è stata segnalata per la prima volta l’efficacia del BCG intracavitario nel trattamento dei tumori superficiali della vescica in pazienti umani, aprendo la strada all’approvazione da parte della FDA dell’uso del vaccino intravescicale BCG per il cancro della vescica in stadio iniziale nel 1990.
Oggi, l’immunoterapia con vaccino BCG rimane uno standard di cura per alcuni tipi di cancro della vescica e si ritiene che agisca attivando il sistema immunitario per attaccare le cellule tumorali.
Ma cosa s’intende per immunoterapia?
L’idea è quella di scatenare il sistema immunitario del paziente contro il tumore. Ci si potrebbe chiedere perché il tumore non sia già attaccato dal sistema immunitario di chi ne è affetto ed il motivo è che il tumore è subdolo: spesso si nasconde, si camuffa oppure rintontisce il sistema immunitario del paziente così da crescere indisturbato ai danni del proprio ospite.
L’immunoterapia si è evoluta quando si è cominciato a prendere in considerazione la possibilità di utilizzare il sistema immunitario del paziente contro il tumore. Il nostro sistema immunitario è costituito da molti attori, essi possono essere divisi in due grandi compagnie: le cellule dell’immunità innata (macrofagi, granulociti neutrofili, basofili, eosinofili e linfociti Natural Killer) e le cellule dell’immunità specifica costituita da linfociti B (che producono anticorpi) e linfociti T (che si occupano dell’immunità cellulo-mediata). Le cellule CAR-T sono proprio linfociti T su cui viene inserita un’antenna, l’antenna CAR, che servirà loro a riconoscere il tumore e a distruggerlo.
Visto che le cellule del sistema immunitario si muovono bene nel circolo sanguino inizialmente le prime sperimentazioni furono condotte in ambito ematologico ossia per tutti i tumori del sangue.
Il funzionamento si basa sulla modifica genetica dei linfociti T autologhi o eterologhi, rispettivamente del paziente o donati da un donatore, ai quali viene fatto esprimere un recettore chimerico.
Tranquilli niente di biblicamente satanico, viene definito chimerico perché unisce proteine diverse che solitamente non stanno insieme. Nelle cellule CAR-T di ultima generazione l’antenna CAR ha infatti una catena che riconosce uno specifico antigene, ossia un target di nostro interesse, in questo caso una proteina espressa dal tumore e poi altre tipologie di recettori.
L’idea di creare un recettore chimerico delle cellule T, che combinasse regioni variabili derivate da anticorpi (VH/VL) con regioni costanti derivate dal recettore delle cellule T (TCR), è stata realizzata per la prima volta nel 1987 da un immunologo giapponese Dr. Yoshikazu Kurosawa e dal suo team presso l’Istituto per la scienza medica completa di Aichi, in Giappone. E la prima terapia con cellule CAR T approvata dalla FDA è stata il tisagenlecleucel (Kymriah) il 30 agosto 2017, per il trattamento della leucemia linfoblastica acuta pediatrica e dei giovani adulti. Il farmaco è stato prodotto dalla società Novartis Pharmaceuticals.
Sebbene la prima terapia approvata sia arrivata nel 2017, la prima paziente a godere dei benefici di questa novità fu Emily Whitehead, entrata nella storia come prima paziente pediatrica affetta da leucemia a ricevere la terapia con cellule T CD19-CAR nell’aprile 2012. Questo genere di terapie non è esente da effetti collaterali e dopo la somministrazione la paziente ha da subito sviluppato una grave sindrome da rilascio di citochine (CRS) e una sindrome da distress respiratorio acuto.
Fortunatamente il team del Dr. Carl June utilizzò ingegnosamente il tocilizumab, un anticorpo anti-recettore IL6 inizialmente approvato per l’artrite reumatoide, per alleviare tempestivamente ed efficacemente i gravi effetti collaterali della CRS.
Undici anni dopo, Emily è ancora libera dal cancro, nonostante le fossero state concesse solo poche settimane di vita prima della terapia con cellule CAR T. La storia di Emily è una testimonianza dei progressi rivoluzionari nella terapia con cellule CAR T e della dedizione incrollabile di professionisti medici visionari che hanno ampliato i confini della scienza medica.
Un capitolo ancora aperto è quello dell’uso di questa terapia sui i tumori solidi. Ci sono delle speranze e delle evidenze ma la strada è ancora lunga. I tumori soldi rappresentano circa il 90% dei tumori umani negli adulti e il 30% nei bambini.
Nonostante il successo senza precedenti nei tumori ematologici, la terapia con cellule CAR T è stata molto meno efficace nei tumori solidi nei confronti dei quali esistono due sfide: abbattere il microambiente tumorale immunosoppressivo (TME), ossia il fenomeno per il quale il tumore rimbambisce le cellule del sistema immunitario, e trovare bersagli esclusivi per il tumore. La soluzione al primo problema è stata trovata con quelle che vengono definite cellule CAR-T corazzate.
Le CAR “corazzate” esprimono molecole accessorie, comprese citochine come IL-2, IL7, IL12, IL-15, IL-18 e IL-21, nonché altre molecole come il TGFb, che nel complesso promuovono la proliferazione delle cellule CAR-T e distruggono il microambiente soppressivo. Le terapie con cellule CAR T “corazzate” hanno dimostrato un’attività antitumorale superiore contro i tumori solidi in modelli murini preclinici. Per determinare se ciò si traduce in applicazioni cliniche, la terapia deve essere sottoposta a rigorosi test sull’uomo.
Il secondo problema è invece terribilmente più complesso: la mancanza di un bersaglio di membrana esclusivo per il tumore. Questo fatto rappresenta una sfida significativa, potenzialmente la sfida più significativa, per i tumori solidi.
Il bersaglio ideale per la terapia con cellule CAR T sarebbe una proteina di membrana o un glicolipide espresso esclusivamente sulla superficie delle cellule tumorali e non nei tessuti normali. Tuttavia, in teoria, un tale obiettivo non esiste perché qualsiasi proteina priva di una normale funzione tissutale non si sarebbe conservata durante l’evoluzione della cellula tumorale stessa e le cellule tumorali sono sostanzialmente sorelle delle cellule del paziente, sono solo delle anarchiche.
Attualmente vengono sviluppati diversi bersagli per tumori solidi ma sebbene altamente espressi nei tumori solidi, questi bersagli sono presenti anche in alcuni tessuti normali. Questo porta a delle conseguenze, ad esempio che il CD19, bersaglio di successo per la terapia con cellule CAR T nelle neoplasie delle cellule B, è espresso anche nelle cellule B normali e i pazienti che ricevono la terapia sviluppano linfopenia delle cellule B e sono più suscettibili alle infezioni.
Un modo per migliorare la specificità della terapia con cellule CAR T è progettare le cellule T in modo da riconoscere con doppie antenne CAR due bersagli distinti presenti sulle stesse cellule tumorali. Questo approccio abbatte la probabilità che le CAR T colpiscano cellule sane garantendo l’eliminazione selettiva del tumore.
Sono in corso numerosi studi clinici per testare la terapia con cellule CAR T nei tumori solidi. Tra questi, la terapia con cellule T GD2-CAR ha mostrato risultati promettenti.
GD2 è un disialoganglioside ed è espresso nei tessuti neurali normali, come il cervelletto e i nervi periferici nell’uomo, ma è altamente espresso nei tumori di origine neuroectodermica, come il neuroblastoma e il glioma pontino intrinseco diffuso (DIPG).
In uno studio di fase 1 che ha coinvolto quattro pazienti con DIPG mutato H3K27M, i pazienti hanno ricevuto un’infusione endovenosa di cellule CAR T seguita da un’infusione intracerebroventricolare. Tre pazienti su quattro hanno mostrato un miglioramento clinico e, cosa interessante, non sono stati osservati segni di tossicità sul bersaglio e fuori dal tumore.
In un altro studio clinico di fase 1-2 sul neuroblastoma ad alto rischio recidivante o refrattario, la terapia con cellule T GD2-CAR ha dimostrato un’efficacia impressionante, con un tasso di risposta complessivo del 63% e un tasso di risposta completa del 33%. Questi risultati suggeriscono che la terapia con cellule T GD2-CAR è fattibile e sicura per il trattamento del DPIG e del neuroblastoma ad alto rischio.
Ci sono dei limiti o dei rischi? Certamente! Come sempre non si può essere esenti da rischi e ogni terapia va considerata in un rapporto tra costi e benefici.
Come abbiamo detto la terapia con cellule CAR T si è rivelata molto promettente nel trattamento dei tumori ematologici, ma una delle principali preoccupazioni con questo approccio è il potenziale rischio di eventi avversi potenzialmente letali. Due degli eventi avversi più comuni: la sindrome da rilascio di citochine (CRS) e la sindrome da neurotossicità associata alle cellule effettrici immunitarie (ICANS). La CRS è mediata dalle citochine IL-1 e IL-6, che possono causare febbre, ipotensione e altri sintomi sistemici. Per mitigare il rischio di CRS e neurotossicità, nel 2017 la FDA ha approvato l’uso dell’anticorpo umanizzato anti-recettore IL6 tocilizumab per la terapia con cellule T CAR.
I pericoli possono essere ancora più ampi, in particolare c’è il rischio di alterare l’equilibrio tra segnalazione positiva e negativa nelle cellule T. Preservarlo e preservare l’omeostasi immunitaria è fondamentale per evitare conseguenze indesiderate.
Un rischio potenziale inoltre è la formazione di nuovi tumori indotti dalla terapia. Dal momento che il processo prevede che le cellule T vengano modificate geneticamente è possibile che questo abbia alcune conseguenze indesiderate: l’attivazione di oncogeni, ad esempio, o l’interruzione dei geni oncosoppressori, con conseguente sviluppo di mutazioni problematiche. Nonostante queste perplessità i dati ci rassicurano: l’uso di vettori lentivirali o retrovirali ha dimostrato un’elevata sicurezza, senza nessun caso segnalato rispetto ai 20.000 pazienti trattati.
L’altra questione da tenere in considerazione è che le cellule T CAR sono un farmaco vivente e possono potenzialmente persistere nel corpo per un periodo prolungato dopo essere state infuse nei pazienti. Poiché gli antigeni presi di mira dalle cellule CAR T sono solitamente espressi anche in alcuni tessuti sani, la persistenza a lungo termine delle cellule CAR T potrebbe presentare un rischio per la sicurezza poiché finirebbero con l’attaccare i tessuti normali.
Le scienziate e gli scienziati hanno pensato anche a questo e le nuove generazioni di cellule modificate porteranno con se un interruttore molecolare di sicurezza, questo permetterebbe di rimuovere le CAR T somministrando semplicemente un composto che le induce a morire selettivamente.
La terapia con cellule CAR T non si limita al trattamento del cancro ed è in fase di studio per il trattamento di varie condizioni patologiche come malattie autoimmuni, malattie fibrotiche, e malattie infettive, ecc. Non solo, recentemente su topo, queste cellule sono state usate per attaccare specifiche molecole che accelerano la vecchiaia permettendo un ringiovanimento sostanziale dei topolini del laboratorio. Un domani le cellule CAR-T potrebbero essere il motore di una vita più lunga e una vecchiaia più sana e serena!
Riferimenti bibliografici
Mitra A, Barua A, Huang L, Ganguly S, Feng Q and He B (2023) From bench to bedside: the history and progress of CAR T cell therapy. Front. Immunol. 14:1188049. doi: 10.3389/fimmu.2023.1188049