Batteri Mangiaplastica: una speranza per l’inquinamento dei mari?

Marco Martinelli, Divulgatore Scientifico e PhD, student presso Scuola Superiore Sant’Anna.

La plastica, dal greco “Plastikos”, è un polimero che può assumere varie forme. Un polimero è l’insieme ripetuto di tanti elementi detti monomeri che possono essere uguali o diversi tra loro, nel caso delle plastiche, i monomeri hanno varia natura, così i polimeri risultanti hanno proprietà chimico-fisiche differenti.

I prodotti in plastica sono ampiamente utilizzati in tutto il mondo e per il loro basso costo e per la loro facilità di produzione.

Attualmente, ogni anno vengono prodotte oltre 400 milioni di tonnellate (Mt) di plastica, numeri che hanno avuto una crescita esponenziale negli ultimi 50 anni anche per l’enorme crescita della popolazione mondiale.

I prodotti principali sono il polietilene (PE), il polipropilene (PP), il polietilene tereftalato (PET), il polistirene (PS) e il polivinile cloruro (PVC), materiali che hanno caratteristiche molto attraenti, come la bassa densità, buoni stabilità agli urti e resistenza agli agenti chimici e alla corrosione, e sono per questi motivi comunemente utilizzati per imballaggi, edilizia, automobili, agricoltura e dispositivi elettronici.

Ci dovremmo liberare completamente della plastica? Assolutamente no. Non credete a facili slogan.

La plastica è utilissima, pensate al settore sanitario, i prodotti in plastica sterili usa e getta sono essenziali per prevenire malattie ed evitare contaminazioni. Il problema della plastica è la lentezza con cui si degrada e la produzione di nano e microplastiche, piccole particelle di plastica che sono state ritrovate anche in organi umani, persino nei testicoli.

La soluzione migliore per evitare tutto ciò è smaltire correttamente la plastica, riciclarla e non disperderla nell’ambiente dove oltre a liberare micro e nanoplastiche, può rilasciare sostanze tossiche o può entrare nella catena alimentare perché ingerita da insetti e pesci.

Riciclare è un must, ma tutta quella plastica oramai dispersa nell’ambiente come possiamo eliminarla? Come depurare il mare e i terreni da plastiche e microplastiche? La risposta potrebbe arrivare dagli insetti ma soprattutto da chi vive nei loro intestini.

Negli ultimi anni, diversi studi hanno messo in luce un’insolita capacità di alcuni insetti di consumare e persino biodegradare diversi tipi di plastica.

La biodegradazione è il processo di degradazione di grandi molecole polimeriche in oligomeri e monomeri. Questo processo è mediato da enzimi, ossia proteine che possiamo immaginare come piccoli omettini che fanno cose, alcuni di loro sono specializzati nel tagliare e decomporre alcune sostanze, trasformando le catene polimeriche in biomolecole più piccole che possono essere ulteriormente processate dall’organismo che le trasformerò in acqua e anidride carbonica.

Gli insetti si nutrono di un’ampia gamma di polimeri ma il segreto sta nel loro intestino dove risiedono dei microrganismi in grado di produrre enzimi particolari, capaci di decomporre composti come il polietilene, il poliuretano, il polipropilene, il polistirolo e cloruro di polivinile.

Un lavoro molto interessante ha studiato la biodegradazione del polistirene o polistirolo da parte di Tenebrio Molitor e Zophobas morio, rispettivamente la tarma della farina e il kaimano.

Nutrendo gli insetti con diverse tipologie di cibi dalla sola avena al solo polistirolo si è potuto osservare che il cambiamento nella massa delle larve e il tasso di sopravvivenza dei due insetti cresciuti col solo polistirolo è simile a quello degli insetti cresciuti con la sola avena.

Anche l’analisi chimica del polistirene mostrava una perdita della massa e uno sbilanciamento delle catene del polimero, risultati che presi tutti insieme evidenziano la capacità di entrambe le larve di sopravvivere utilizzando la plastica come mangime.

Bravi questi insetti ma sopratutto bravi i batteri che vivono nei loro intestini perché è proprio grazie a questi che il polistirolo viene degradato.

Gli scienziati e le scienziate hanno cominciato così a riflettere sull’utilizzare anche i soli batteri per distruggere la plastica senza bisogno di sfruttare tonnellate di insetti e una grande opportunità è emersa dai microrganismi estremofili.

”Estremo” è un termine che si riferisce alla capacità di alcuni organismi non solo di resistere ma crescere attivamente in condizioni che sarebbero letali o troppo dure per qualsiasi altro essere vivente.

I loro enzimi sono particolarmente interessanti per la biomedicina ma anche per processi industriali, infatti riescono a effettuare reazioni chimiche a temperature e condizioni nelle quali i normali enzimi non riuscirebbero.

Possiamo dividere i batteri estremofili in termofili, ossia quelli che amano il calore e crescono tra 45° e 122°C, basofili, ossia quelli che amano crescere in ambienti molto basici con pH>9, alofili, adattati ad alte concentrazioni di sale, gli psicrofili che crescono tra i -20° e 20°C.

L’evoluzione in condizioni difficili ha reso gli enzimi di questi batteri più forti e resistenti alla proteolisi (degradazione dell’enzima stesso che è una proteina) e agli agenti denaturanti, come i solventi organici.

Un’ulteriore caratteristica è la resistenza all’invecchiamento di questi enzimi che sono molto più longevi, si tratta di un parametro molto importante a livello commerciale perché consente un’emivita assai più lunga del prodotto derivato.

Considerando che molte nicchie contaminate da materie plastiche sono caratterizzate da condizioni ambientali estreme, come temperature basse o elevate, alte concentrazioni di sali, acidi o alcali. L’utilizzo di batteri e quindi enzimi estremofili possono risultare di estrema importanza.

Pensate alle isole di plastica nel mare oppure alle discariche. Le ricerche continuano e spaziano dal mare alla montagna. Recentemente le scienziate e gli scienziati dell’Istituto Federale Svizzero hanno trovato microbi in grado di digerire il poliuretano (PUR) e polibutilene adipato tereftalato (PBAT) nelle Alpi del Canton Grigioni.

Il PUR si trova nelle spugne che si usano in cucina o nelle scarpe da ginnastica mentre il PBAT nei sacchetti di plastica biodegradabili.

I microrganismi rinvenuti operano a basse temperature intorno ai 15°C e anche in questo caso l’interesse non è tanto quello di disseminare questa tipologie di batteri in tutte le discariche ma isolarne gli enzimi.

I batterimangia plastica sono sicuramente una grande risorsa ma non possiamo pensare di risolvere il problema dell’inquinamento da plastica sperando che il loro appetito sia sempre maggiore.

Le ricerche in quest’ambito sono estremamente utili per ottenere enzimi efficienti in grado di essere utilizzati in appositi impianti per purificare reflui, acqua e terreni da nano e microplastiche.

I paesi del mondo e i suoi abitanti dovranno però sforzarsi di adottare politiche sempre più circolari che limitino la dispersione nell’ambiente di questi polimeri, ne promuovano il riuso e il corretto smaltimento.

Bibliografia:

Atanasova, N.; Stoitsova, S.; Paunova-Krasteva, T.; Kambourova, M. Plastic Degradation by Extremophilic Bacteria. Int. J. Mol. Sci. 2021, 22, 5610. https://doi.org/10.3390/ijms22115610 Shakir Ali, Abdul Rehman, Syed Zajif Hussain, Dilara Abbas Bukhari, Characterization of plastic degrading bacteria isolated from sewage wastewater, Saudi Journal of Biological Sciences, Volume 30, Issue 5, 2023.