Quando il cervello invecchia

Marco Martinelli, Divulgatore Scientifico e PhD, student presso Scuola Superiore Sant’Anna.

L’invecchiamento non deve spaventarci. La “vecchiaia” rientra perfettamente nel ciclo naturale delle cose al punto che anche gli organismi più semplici dopo un numero più o meno limitato di replicazioni smettono di dividersi e poi muoiono.

Di base è la termodinamica che ci fa invecchiare ossia la costante direzione dell’universo, del Mondo e del nostro organismo verso il disordine. La vita lotta strenuamente per mantenere l’ordine e l’equilibrio ma nel farlo si logora e a un certo punto cede.

Le nostre cellule, che nel loro insieme formano tessuti, organi e apparati, non sono da meno. Con i loro tempi e le loro modalità attraversano varie fasi e poi alla fine del loro ciclo hanno due possibilità: l’“harakiri cellulare” ossia l’apoptosi e quindi l’attuazione di quella che definiamo “morte programmata cellulare” oppure la senescenza.

La prima modalità è sicuramente la più sicura: le nostre cellule muoiono a comando costantemente, anche durante lo sviluppo del feto, il processo di formazione della mano ad esempio, prevede che da una struttura tutta unita, una mano “spatola”, la separazione delle dita avvenga perchè le cellule si suicidano sparando così un dito dall’altro.

La senescenza è uno status in cui le cellule si immobilizzano, non si replicano e cominciano a produrre molecole pro infiammatorie che possono arrivare a trasformare le cellule vicine in altre cellule senescenti.

Il sistema immunitario solitamente si accorge di ciò e distrugge le cellule senescenti ma non sempre è pronto e ci riesce.

L’invecchiamento correla con un aumento delle cellule senescenti e vi dico già che i polifenoli sembrano agire da senolitici ossia da “distruttori delle cellule senescenti”: quercetina, resveratrolo sono in sperimentazione per capire quanto possano agire per aiutarci a combattere questa causa o conseguenza dell’invecchiamento.

Ci si potrebbe chiedere perché invecchiamo? E perché il cervello invecchia?

Questa è una domandona incredibilmente complicata e senza tirare fuori la filosofia o la termodinamica, i medici e i biologi sono concordi nell’affermare che le nostre cellule sanno percepire lo scorrere del tempo.

Non conoscono capodanno, Pasqua, Natale o il proprio compleanno, ma riconoscono un tempo biologico determinato e dal numero di replicazioni che le cellule compiono (con il relativo accorciamento delle parti terminali dei cromosomi, i telomeri) e da una sorta di ritmo circadiano (che però più che percepire l’invecchiamento, influisce sui ritmi sonno/veglia o sulla produzione di enzimi).

Il cervello composto da cellule nervose di varia natura e cellule del sistema immunitario non è immune all’invecchiamento e molte delle sue cellule per motivi genetici e/o ambientali possono entrare in senescenza.

Una delle conseguenze più importanti dell’invecchiamento è l’insorgenza di patologie neurodegenerative e tra queste, l’Alzheimer.

L’Alzheimer è una delle più comuni forme di demenza e si pensa che entro il 2050 affliggerà 131.5 milioni di persone nel Mondo.

I principali sintomi sono la graduale perdita di memoria, della capacità di parlare, di eseguire compiti semplici o di avere pensiero astratto. I casi più gravi, frutto della lenta ma inesorabile neurodegenerazione, portano chi ne è affetto ad uno status semi vegetativo.

Da circa 30 anni la medicina è convinta che questa patologia si origini dall’accumulo all’interno di neuroni delle placche amiloidi le quali si generano per l’alterazione del metabolismo della proteina precursore della beta amiloide (detta APP). Questa sostanza porta alla morte dei neuroni e quindi alla progressiva perdita delle capacità cognitive.

Attualmente però la visione si sta ampliando anche su altri meccanismi che riguardano i mitocondri, la neuroinfiammazione o la scorretta formazione di altre proteine, identificando cause genetiche (solo il 5% dei casi), ambientali o afferenti ad altri importanti player del cervello come le cellule immunitarie.

Astrociti e Microglia sembrano avere un ruolo fondamentale nel controllo della malattia e nel suo sviluppo, in particolare nel controllare la produzione di molecole infiammatorie da parte dei neuroni morenti.

Tra i farmaci sin’ora sviluppati, gli inibitori dell’acetilcolinesterasi, potevano migliorare i sintomi della malattia ma la scienza grazie alle biotecnologie sta facendo passi da gigante.

Uno dei farmaci più recenti approvati è il Leqembi (lecanemab-irmb), un anticorpo in grado di legarsi alle placche amiloidi e attirare su di se le cellule del sistema immunitario. Una volta attivato, il sistema immunitario, mangia letteralmente le placche riducendone il numero e la quantità.

Il farmaco è stato testato su 846 pazienti ed ha portato a una notevole riduzione delle placche amiloidi ed è consigliato nei casi di decadimento cognitivo o demenza lievi.

Funziona? Sicuramente rallentiamo la corsa della malattia ma ancora dobbiamo comprendere come fermarla attraverso lo studio e la ricerca di altre innovative modalità.

Bibliografia:

Clive Ballard, Dag Aarsland, Jeffrey Cummings, John O’Brien, Roger Mills, Jose Luis Molinuevo, Tormod Fladby, Gareth Williams, Pat Doherty, Anne Corbett and Janet Sultana. Drug repositioning and repurposing for Alzheimer disease. Nature reviews, Neurology. 2022.

Giovanni B. Frisoni, Federica Ribaldi, Rik van der Kant, Rik Ossenkoppele, Kaj Blennow, Jeffrey Cummings, Cornelia van Duijn, Peter M. Nilsson, Pierre-Yves Dietrich, Philip Scheltens and Bruno Dubois. The probabilistic model of Alzheimer disease: the amyloid hypothesis revised. nature reviews, Neuroscience. Volume 23, 2022.